“Date parole al vostro dolore; il dolore che non parla sussurra al cuore troppo gonfio e lo invita a spezzarsi.” (William Shakespeare)
La domanda “a che cosa serve il dolore” può sembrare una domanda retorica. Infatti, non voglio ripetere quello che le ricerche scientifiche hanno sapientemente illustrato sulla funzione del dolore che è soprattutto un mezzo di difesa vitale per la nostra sopravvivenza. Né mi voglio riferire alla funzione anche evolutiva della sofferenza che viene spesso considerata come sinonimo del dolore.
Ma a che cosa serve il dolore
anzi questo dolore che da settembre 2021 non mi abbandona? Per essere più precisi, dal 24 giugno, giorno del mio onomastico e compleanno, la mia vita è stata stravolta. È come se con il 69° compleanno fosse iniziata “la mia vecchiaia”. Sì, perché da allora, il mio corpo e il dolore sono diventati una cosa sola. Insomma, attraverso il dolore, ho scoperto che la mia colonna vertebrale era proprio messa male, come se fosse andata in frantumi. Il dolore, da acuto si è trasformato in cronico e costante. Inoltre, è l’elemento che accompagna la mia vita. Ho seguito quasi tutte le terapie mediche, farmacologiche e fisiche prescritte dai diversi specialisti consultati. Ma non c’è nulla da fare! Neanche la cosiddetta terapia del dolore ha funzionato. Ecco perché mi chiedo: “a che cosa serve il dolore”, “a che cosa serve il mio dolore”. Certo, non a farmi amare la vita, perché più volte ho dato ragione alla soluzione razionale proposta dagli stoici.
Non riesco a considerare sacra la vita, se il dolore non ti permette di viverla in pienezza. Finora avevo creduto, grazie alle letture dei vari filosofi e della filosofia cristiana che la
sofferenza fosse maestra di vita
perché essa rappresenta uno spartiacque tra il prima e il dopo. Infatti, per me era stato così, a partire dagli eventi che si sono verificati prima dei 40 anni, che hanno avviato una vera e propria crisi esistenziale. Credevo che tale sofferenza mi avesse forgiato bene, in quanto avevo iniziato e praticato uno stile di vita molto diverso rispetto alla visione della vita che avevo precedentemente. Ma adesso il dolore è solo fisico, cioè è il corpo che mi fa male; la colonna vertebrale, la gamba e il piede dx mi tormentano attraverso delle fitte, come aghi.
L’apostolo Paolo in 2 Corinzi parla di “una scheggia nella carne” che lo tormenta per impedirgli di diventare orgoglioso. Alla triplice supplica al Signore di liberarlo dal dolore, la risposta è stata: “ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole”.
Io non ho la fede di Paolo, lui è stato chiamato per essere l’apostolo delle genti. La mia debolezza a chi può servire? Io non ho missioni da compiere o almeno non le vedo. Ecco, ho bisogno di trovare un significato per potere accettare questo dolore. No, anzi voglio trovare, insieme alla preghiera (consapevolezza del bisogno di aiuto), una strategia per fronteggiare il dolore.
Non so quale, ma credo che ciò avverrà perché il corpo (che mi è stato dato) può e deve trovare in sé le vie della guarigione.
Quando il dolore è eccessivo, bisogna morire un po’ per andare avanti (Susanna Tamaro)
Guardare da vicino il proprio dolore è un modo di consolarsi. (Stendhal)
Infatti per consolarmi, ho analizzato a lungo il dolore nei 3 articoli scritti per rispondere alla domanda Algofobia o iperalgesia: qual è il tuo disturbo?